The Disappearance of Willie Bingham – La sfida del restare umani

Un corto forte, drammatico, necessario, che vuol riflettere sulla pena, sulla vendetta, sulla giustizia, su cosa ci rende umani e sulla redenzione.

The Disappearance of Willie Bingham (2015) è un cortometraggio di Matthew Richards, che mi ha profondamente colpita. Non solo perché è crudo, ma perché riesce a trattare temi importanti, senza retorica e fronzoli. Il principio e lo scopo del corto sono chiari, manifesti. Il regista australiano ci vuole mettere in guardia su una verità: è assai sottile la linea che separa la vittima dal carnefice. Ci vuole poco a passare dall’altra parte. Ci vuole poco a smettere di essere umani e a trasformarci in bestie.

Quando abbiamo subito un torto gravissimo, che ha cambiato la nostra vita per sempre, è davvero difficile non cedere all’odio e non desiderare di fare all’altro quello che ha fatto a noi. Di fargli provare il nostro dolore, la nostra angoscia, la nostra perdita. Il dolore è così forte che non ci importa se ci macchiamo del suo stesso crimine, se diventiamo della stessa pasta del nostro carnefice. Occhio per occhio, dente per dente. E, invece di fare giustizia, ci vendichiamo e, vendicandoci, cessiamo di essere giusti. Diventiamo dei mostri.

Occhio per occhio

Eppure, mettiamo che la legge ce lo consenta, che ci permetta di vendicarci su chi ci ha fatto del male o l’ha fatto alla nostra famiglia, a chi vogliamo bene. Il colpevole è legato, è inerme, e noi possiamo scagliare su di lui tutto il nostro odio, tutta la nostra rabbia. Willie Bingham è un condannato a morte e la legge consente ai suoi familiari di potergli infliggere delle pene corporali. Possono far rimuovere da degli equipe di esperti un arto, un muscolo, un organo. Tutto quello che vogliono. Il criminale è in una stanza, legato ad un lettino, e i familiari di una sua vittima chiamano e chiedono la rimozione di qualcosa. Un braccio, una gamba, un rene. Telefonata dopo telefonata, tolgono qualcosa al carnefice, che giace inerme. Urla, si contorce, finché non gli tolgono perfino la lingua.

Durante il progressivo smembramento, i membri della famiglia vanno via, uno alla volta. Ma non il padre. No, lui resta e chiama, facendo tagliare, estrarre, strappare via qualcosa. E più toglie all’uomo, più toglie qualcosa a se stesso. Vittima e carnefice si invertono e proviamo empatia per entrambi. Eppure, l’amarezza che ci invade è legata al fatto che è tutto permesso dalla legge, da un contratto legale.

“Una libra di carne di Antonio”

The Disappearance of Willie Bingham ricorda in molti punti il contratto (the bond) tra Antonio e Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare. Nell’opera, il mercante italiano stringe un patto con Shylock, l’usuraio ebreo. Quest’ultimo gli farà un prestito e, in caso non potesse restituire la somma, Antonio dovrà cedergli una libbra della sua carne, un pegno per tutte le offese che il povero usuraio ha subito dallo stesso mercante, solo perché è un ebreo. Ovviamente, la storia è ben più complicata, ma perché tirarla in ballo? Perché il padre della vittima, come Shylock, coglie l’occasione per sospendere il giudizio su cosa è giusto e su cosa è sbagliato, e si abbandona alla vendetta. Recita nel suo celebre monologo:

se un ebreo fa un torto a un cristiano, che benevolenza ne riceve? Vendetta. E se un cristiano fa torto ad un ebreo, che sopportazione avrà questi secondo l’esempio cristiano? Chiaro vendetta. La malvagità che mi insegnate io la metterò in opera e sarà difficile che non superi chi mi ha istruito.

E se Shylock non riesce a portare a compimento la sua vendetta, il padre vi riesce, proprio grazie alla legge. Ma a che scopo? A che serve cercare vendetta, quando si è ridotti a gusci vuoti senza vita? A che serve cedere ai propri istinti, se non ci si eleva, ma si sta addirittura peggio di prima? E la legge umana non dovrebbe avere la funzione di renderci migliori? Non dovrebbe arginare i nostri istinti più bassi? E chi commette un reato, foss’anche spregevole, non ha il diritto di vivere? Diceva Oh Dae-su in Old Boy (2003), in una delle scene più belle del film di Park Chan-wook, la più grande delle verità, che potremmo benissimo adattare a questo corto e alla vicenda che racconta:

Sebbene io sappia di essere peggio di una bestia, non crede che abbia anch’io il diritto di vivere?

Lo spettatore come Antigone

Il cinema, la letteratura, l’arte in generale, riescono così bene a porci di fronte a dilemmi etici e morali. Lo spettatore si tramuta in Antigone e e si domanda se sia giusto osservare la legge umana o la legge divina, ben più antica. Domandarci qual è il limite alle nostre azioni e cosa sia davvero la giustizia. E se diventiamo mostri, nel momento in cui cessiamo di vedere con lucidità cosa sia giusto fare, come sia giusto comportarci. The Disappearance of Willie Bingham è una preziosa occasione per riflettere sulla nostra umanità, sul bene e sul male. Potete trovarlo con estrema facilità su Youtube

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Nasce nella provincia barese in quel del '94 con l'assoluta certezza di essere Batman. È in grado di vedere sette film al giorno e di finirsi una serie tv in tempi sovrumani. Peccato che abbia anche una vita sociale, altrimenti adesso sarebbe nel Guinness dei primati...